"Una vita stonata" di Alessandro Reali


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Nella casa di fronte le luci erano ancora spente. La pioggia, fine e gelata, cadeva dalla sera prima, senza interruzioni e, sulla strada che separava le due villette, si erano formate larghe pozzanghere.
Una luce si accese. Quella della cucina, pensò Luca, respirando profondamente, srotolando, dal centro dello stomaco, il film d’ansia che, col passare dei giorni, s’infittiva d’immagini angoscianti.
Susanna, la gatta cicciona di sua moglie, una persiana, strisciò verso di lui, dopo aver abbandonato il giaciglio in salotto, accanto al camino. Luca, distrattamente, prese un biscotto Saiwa e lo passò al gatto:
– Non ci amiamo granché io e te, Susanna, ma Marita ti ha voluto a tutti i costi, ricordi? E anche i ragazzi. Non sei cattiva, sei inutile – sospirò, pensando alla sua utilità nel mondo, alla bellezza della casa sgravata dei debiti, all’auto parcheggiata in garage, a Marita super impegnata, ai ragazzi intrappolati in mille attività, alla voglia maledetta che aveva di fumarsi una sigaretta. Ma aveva smesso, seguendo i consigli del suo amico, il medico podista, il dottor Reverberi di Gralasco che, perentorio, gli aveva detto:
– Adesso hai cinquant’anni, basta con le stronzate. E le sigarette lo sono.
Nella casa di fronte, Lucia, dopo il caffè, ne accese una. Lei fumava, come una turca. Pigiò il telecomando della TV e alzò il volume per ascoltare l’oroscopo su Canale 5. Di fronte a lei, con i gomiti possenti piantati sul tavolo rettangolare, c’era suo marito, Silvano. Sorbiva con gusto il caffellatte e sbirciava l’Ipad, come ogni mattina, emettendo quei suoni, quei gorgoglii che, già da qualche tempo, disgustavano Lucia.
Dall’altra parte della strada Luca si preparò il Nespresso, intenso e cremoso, quindi si chinò per accarezzare la gatta, pensando di trovarsela tra le gambe. Ma Susanna non c’era più. Flessuosa, aveva fatto ritorno nella sua cesta, al caldo. Anche lei, in qualche modo, lo fuggiva, non capiva che lui, in quei giorni frastornanti, aveva bisogno di avere attorno, saldi, i perni della sua famiglia, in modo d’aggrapparsi ad essi in caso la situazione avesse preso una piega drammatica, quando il desiderio, la voglia, lo strumento contro la noia che sommergeva la sua vita, l’avesse obbligato ancora a tradirli tutti, in primo luogo Marita, sua moglie, colei che, senza fronzoli, era la vera anima della famiglia, il centro del loro mondo. Lui, Luca, niente più d’un ammennicolo. Per questo la fuggiva e per questo aveva bisogno del senso di sicurezza che solo lei sapeva infondergli.
Si accostò alla grande biblioteca che aveva selzionato nel corso degli anni, il suo vanto contrapposto al pragmatismo di Marita, che si concedeva solo letture leggere, la sera, prima di dormire, o riviste d’arredamento e architettura, il campo dove operava (mentre lui girava più che altro i cantieri) nello studio di Viale Campari, a Pavia.
Ma lui leggeva ancora? O tutto quanto era solo un atteggiamento? Un altro artificio per mascherare con la cultura il suo senso di inutilità nel mondo. Quel mondo che non aveva mai trovato il modo o il coraggio di abbandonare. Neppure con la morte? Perché no? …la morte… Anche se la fuga, la scomparsa, aveva quel non so che di romantico che ancora, lievemente, l’intrigava.
Estrasse dalla fila di libri un testo di mitologia classica. Sedette sul magnifico divano nuovo, in pelle bianca, dalle linee essenziali come piacevano a Marita: erano molto più comodi quelli di prima, pensò, prima d’avvertire, ruvida, una fitta al cuore. Stai attento che adesso mi viene l’infarto. Ho smesso di fumare, gioco a tennis, faccio palestra… i suoi pensieri intimi – a parte l’invasione, massiccia e ossessiva, delle fantasie sessuali – erano rivolti per lo più all’infarto e al cancro, a seconda dei periodi. Trascorreva, all’insaputa di tutti, ore e ore ad angosciarsi, giungendo infine alla conclusione che, il peggio che poteva capitargli, era morire. Ma questa sentenza non alleviava le sue pene. Un dolorino, un ascesso, una macchia, erano sufficenti a tuffargli il cuore in una sorta di nebulosa terrorizzante. Ecco il cancro, l’attesa del responso, la TAC, oppure l’infarto, improvviso e micidiale, come era capitato al suo amico d’infanzia Rino, di Mede, oppure l’ictus, com’era toccato a suo suocero, che adesso vegetava nella casa di riposo di Gropello.
Chiuse gli occhi, il grosso tomo in grembo, ecco, un flash, un salvagente come un fiore candido nel grigiore assoluto: lui a diciassette anni, sulla Vespa Primavera bianca, in compagnia di amici che allora erano come fratelli e poi, senza un motivo preciso, erano finiti nel dimenticatoio, ognuno intrigato nella sua vita. Ero io, pensò, ero proprio io, cacciatore di ragazze con la pretesa di fare lo scrittore. Orgogliosamente snob contro il “rampantismo” anni 80, con Henry Miller, Jack Kerouac, Charles Bukowski, e tutta la voglia di partire, fare, stupire, dopo il diploma promesso a mio padre.
Adesso, dopo trent’anni, cosa è rimasto?
Nella casa di fronte, Lucia accese la seconda sigaretta della giornata. Levò tazza e piatto di fronte al marito. Un tipo alto, biondo, un po’ stempiato. Mascella quadrata, antipatica, odiosa, alla lunga, pensò la donna. Regolare, troppo regolare, quando gioca a tennis, in borsa o sopra di me.
– Piantala con ‘ste cazzo di sigarette, impesti tutta la casa – gracchiò Silvano, sistemandosi la cravatta.
Glielo dico, giuro che questa sera glielo dico. Non ce la faccio più. Andrò a stare un po’ da mia madre, pazienza, mentre lui sistemerà le cose con Marita. Quante volte mi ha promesso di farlo? Spero che la mia decisione solleciti anche la sua. È ora di chiarire le cose, una buona volta, caro Luca, quando due si amano come ci amiamo noi.
Luca si alzò, fece un giro intorno al tavolo, ripose il libro di mitologia. Sedette ancora e chiuse gli occhi. Vide sua figlia, Caterina, gli occhi accesi di Marita, la stessa determinazione, insolente, qualche volta. E poi suo figlio, Federico, pallido, la bella schiena sudata, il muso da ribelle – come il suo, gli piaceva pensare – sotto lo sguardo segaligno delle suore all’asilo. Un attimo dopo, un’immagine o, meglio, un’intrusione, impudica, volgare quanto poderosa: Lucia tutta nuda, le lunghe gambe aperte, i seni tondi e sodi, il sorriso cattivo oltre il caschetto tinta platino, e quel desiderio che gli era nato dentro la prima volta che l’aveva vista, tre anni prima, quando la giovane coppia, da Assago, aveva deciso di trasferirsi a Garlasco, dove ancora viveva la madre della donna. Ma, adesso, quel desiderio, era diventato un’ossessione, una prigione. Durava ancora ma non aveva più niente di ludico, non fungeva da antidepressivo contro la noia, la malinconia della sua vita, altrimenti insopportabile. Ora, era proprio quel desiderio, un tempo calamita di tanti pensieri irresistibili, a farsi insopportabile, a rendere l’esistenza un incubo.
Silvano, nella casa di fronte, baciò la moglie sulla guancia, come ogni mattina. Indossò il burberry chiaro e, dopo qualche minuto, sbucò oltre il cancello automatico a bordo dell’ Audi A4 station wagon grigio metallizzata.
Lucia, in bagno, fece il bidé, con cura, lasciandosi andare all’acqaua calda, assorta, percependo, intimo, il brivido grossolano della trasgressione, che sfiora la paura e offre la vertigine. Con la consapevolezza, però, che quello ch’era iniziato come un gioco stava diventando la sua vita, una nuova vita, da uomo più grande, maturo e realizzato, con molto tempo da dedicarle.
Forse.
Nella casa di fronte il cellulare di Luca vibrò sulla mensola, accanto agli occhiali da lettura con la montatura rossa.
– Geometra buongiorno, sono Giavazzi.
– Buongiorno Giavazzi.
– L’aspetto a pranzo, come d’accordo.
– Va bene.
– Il progetto delle villete di San Martino è pressoché definito.
– Ne ha parlato con Marita?
– Sì, ci sarà anche lei con l’architetto Martini, a pranzo?
– Non credo.
– Davvero in gamba, quel Martini, un giovane con le palle, grande acquisto per lo studio.
– Lo penso anch’io.
– Allora ci vediamo dall’Angelo, a Carbonara, salumi di cantina e Gutturnio, verso l’una, va bene?
– Va bene.
– Allora a dopo.
– Sì, a dopo.
Luca spense il cellulare e pensò al Giavazzi, al suo sorriso da scemo, al girovita da grande mangiatore e la loquacità dell’imbonitore. Non furbo quanto suo padre, che si era arricchito negli anni dei socialisti e della Milano da bere, poi era finito nelle grinfie dei giudici, all’epoca di “Mani pulite” e, adesso, vigilava dall’altro sugli affari edili del figlio. Figlio sposato molto bene, va aggiunto, con Lara Simoncelli, rampante politica pavese, scorbutica e altezzosa ma, nell’insieme, attraente.
Luca indossò la giacca sportiva, quella presa a Champoluc in Rue Ramey, dove avevano affittato un appartamento per far sciare i ragazzi nei week-end invernali.
Uscì in strada, sotto la pioggia che gli sferzava il viso, la bella barba leggermente brizzolata che, da quando andava di moda, aveva deciso di lasciarsi crescere. Salì sul fuoristrada nero, parcheggiato di fronte. Aveva una gran voglia di fumare. D’istinto aprì il cassetto, nel caso fosse rimasto un pacchetto dimenticato. Niente, erano più di tre mesi che aveva smesso.
Tra poco avrebbe incontrato Lucia, la sua amante, quella nevrotica della casa di fronte: una sigaretta via l’altra. Il chiodo fisso, la passione, come lui. Da qualche tempo, purtroppo, anche la pretesa folle che lui lasciasse Marita. Una pretesa a cui aveva replicato come faceva sempre. Incerto e insicuro:
– Certo, vedrai, amore, più avanti, devo preparare i ragazzi, non ce la faccio più nemmeno io ad andare avanti così.
Balle.
Salì in macchina e partì, col tergicristalli alla massima velocità, diretto verso il Motel di Tortona dove avevano luogo, solitamente, i loro incontri clandestini. Mezz’ora di guida attraverso il grigiore assoluto della pianura. Traffico, un senso vago di paura, ancora, le buche sfascia sospensioni delle strade padane, gli aironi cinerini immobili sul ciglio erboso.
Parcheggiò oltre la siepe alta, a protezione di occhi indiscreti. Entrò nella hall, dove la donna oltre il banco, che lo conosceva, si limitò a sorridere dicendo:
– Stanza numero 12, va bene?
Afferrò la chiave, sudando, infelice, profondamente infelice. Una volta in camera tolse la giacca e sedette sul letto. Guardò i campi brulli, le auto, una pianura uggiosa a perdita d’occhio. Aveva un senso quello che stava facendo? E cosa stava facendo, poi, non lo sapeva, non era in grado di programmarlo. Sotto il vestito del bell’uomo affascinante e realizzato, all’ombra della moglie, non particolarmente avvenente ma caparbia e intelligente, restava un’ombra, un coacervo d’insicurezze, corse sfrenate a ruota libera e frenate paurose, sterzate di vigliaccheria.
Lucia entrò. Indossava un bel tailleur nero, giarrettiere e scarpe di vernice nera con i tacchi a spillo. Era alta, un gran fisico, non particolarmente intelligente ma sensuale, tanto sensuale, almeno fino a qualche tempo prima, agli occhi di Luca.
Lasciò scivolare la gonna sul pavimento, lo spinse a letto e lo baciò sulla bocca. Lui, supino, inerme, goloso di lei e, al tempo stesso, provando un senso di fastidio… cosa fare? Cosa dire? Mentre le dita abili gli calavano i calzoni e le mutande, e la lingua dall’ombelico scivolava verso il sesso.
Dopo l’amore, una doccia, bollente. Quidi Lucia, rivestendosi, disse:
– Stasera gli parlo, non posso più continuare così, alla fine non mi sembra giusto nemmeno per lui, poveretto.
Lui la guadò, il cuore stretto in un pugno d’angoscia.
– Tu devi fare lo stesso con tua moglie. Io e te ci amiamo, siamo fatti uno per l’altra e dobbiamo stare insieme, non è vero? – aggiunse la donna.
– Vero – sospirò lui, confuso.
Dov’era cominciata? Perché era cominciata? Possibile che ora finisse così?
In un attimo vide il film della sua vita: tutte le paure alleviate da poche certezze. Sua moglie, i suoi figli, suo padre che gli diceva:
– Pensa a studiare e lavorare. Gli scrittori, gli artisti, tutti vagabondi, non vedi?
E lui, agiato nella bella vita, comoda, incapace di trovare la forza, a tempo debito, di mollare tutto e tutti, le soddisfazioni fittizie, per mettersi a fare lo scrittore sul serio, sovrastato dal terrore di non essere capace, che tutte le sue pretese adolescenziali non fossero altro che apparenze oltre le quali c’era il nulla, meno di un passatempo travestito goffamente da urgenza interiore.
Era tardi, oramai, troppo tardi.
Si alzò e senza sforzo particolare spinse Lucia contro il muro, la schiacciò sulla parete tinta lilla, con entrambe le mani intorno alla gola, a premere forte, sempre più forte, evitando di guardarla negli occhi.
Lucia si accasciò sul pavimento, una foglia di carne, accartocciata, privata di tutta la bellezza, tutta la vita.
Luca, tremando, prese il cellulare e compose il numero di sua moglie.
– Ho fatto una cosa atroce. Ho ucciso una donna – biascicò con un filo di voce, le lacrime agli occhi.
Marita, come in un film di serie B, si sciolse dall’abbraccio del giovane architetto Giacinto Martini, un ragazzo davvero promettente. In pausa pranzo, da qualche tempo, si appartavano nel suo ufficio e facevano l’amore, con impudica allegria. Ridendo, sostenevano fosse un’ottima terapia.


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