"Vindicta" di Laura Veroni


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<<Ti manca molto?>>, domandò Cinzia, avvicinandosi all’amica, l’asciugamano arrotolato attorno al collo.
<<No, questo è l’ultimo>>, rispose Alba.
<<Dai, veloce, che dobbiamo andare!>>,
Alba si affrettò a ultimare l’esercizio. <<Fine!>>, esclamò, riponendo i manubri sulla rastrelliera.
Cinzia le si avvicinò e le diede una pacca sul sedere: <<Dai, andiamo a cambiarci! La notte ci aspetta!>>
Era la prima volta per Alba: non aveva l’abitudine di uscire a festeggiare l’8 marzo. Quella era una delle tante sere che preferiva trascorrere in casa, piuttosto che mescolarsi alla massa di donne a suo parere insoddisfatte e frustrate. Disapprovava certi comportamenti.
Alba Manfredi era una donna sola e molto riservata. Non aveva un marito e nemmeno un compagno. Rimasta incinta a vent’anni, il bastardo autore dell’incidente – così lo aveva definito lui -, che tanto si era detto innamorato, l’aveva mollata. Alba non aveva più voluto avere a che fare con gli uomini da allora.
Cinzia Armandi, invece, era una donna sposata. Suo marito Federico era tra gli industriali più facoltosi del Nord Italia, un uomo dal fascino ineguagliabile, nonostante avesse superato la cinquantina. Numerose donne erano cadute ai suoi piedi, ma solo una aveva avuto la fortuna di diventare sua moglie. Tra i due intercorreva circa una ventina d’anni. Entrambi gestivano i propri spazi, uniti da un apparente vincolo d’amore e da un contratto prematrimoniale, nel quale era scritto che, in caso di tradimento di lei, supportato da prove, Cinzia sarebbe rimasta con un pugno di mosche: non avrebbe visto un solo centesimo di quel patrimonio. Federico Armandi aveva diverse proprietà: appartamenti, auto di lusso, uno yacht, la villa al mare. In città, però, aveva optato per un attico, all’ultimo piano di un prestigioso condominio. Che Cinzia lo amasse, per Alba, era sempre rimasto un interrogativo, fino al giorno in cui l’amica le aveva rivolto quella domanda: <<Sai tenere un segreto?>>.
Alba l’aveva guardata senza dir nulla.
<<Ho una storia con un tizio della palestra>>, le aveva confidato. <<Hai presente Brando?>>
In quel momento, Alba aveva compreso tutto: a Cinzia non doveva importare nulla di suo marito, al di là dei soldi.
Il Suv di Cinzia Armandi prese la strada del lago. Alba sedeva di fianco.
Le borse della palestra, chiuse nel bagagliaio, diffondevano nell’abitacolo odore di spugna bagnata, tipico degli accappatoi non stesi ad asciugare. Alba pensò che, al rientro dalla festa, il lezzo sarebbe stato insopportabile. Abbassò leggermente il finestrino.
<<Vuoi che spenga il riscaldamento?>>. Cinzia doveva aver pensato che il gesto dell’amica fosse dovuto a un colpo di calore.
<<Non è quello>>, si affrettò a spiegare Alba. <<C’è cattivo odore.>>
<<Hai ragione, ma non c’era il tempo di passare da casa a scaricare le borse>>, si giustificò Cinzia. <<Guarda nel cruscotto: dovrebbe esserci un deodorante da mettere nel posacenere.>>
Alba rovistò nel cassetto. Quando lo ebbe trovato, aprì la confezione e versò nel portacenere le palline profumate.
Percorsero Valle Luna a velocità sostenuta, nonostante fosse un tratto di strada piuttosto pericoloso, a causa delle numerose curve. Ma Cinzia si reputava un’ottima guidatrice, con riflessi molto pronti. L’evidente eccitazione per la serata doveva darle una carica incontenibile. Oltrepassato il ponticello, il Suv svoltò a destra e si accinse a percorrere l’ultimo tratto di strada poco battuta, per poi immettersi sulla statale che, attraverso la rotonda, avrebbe condotto alla via verso il lago, che costeggiava la ciclabile. La serata era piuttosto fredda, ma il cielo era libero da nuvole e trapuntato di stelle.
Cinzia Armandi si lasciò l’ampio parcheggio del Luna Park alla propria sinistra e imboccò la stradina che conduceva direttamente alla sede dei Canottieri.
<<Speri di trovare posto, con tutta la gente che ci sarà?>>, domandò Alba. <<Perché non ci fermiamo qui?>>
<<Donna di poca fede! Lo troverò>>, scherzò Cinzia con un sorriso soddisfatto. Incurante del divieto di sosta, posteggiò poco distante dalla sede Canottieri Varese, la società di canottaggio fondata nel 1927 presso il lido della Schiranna, che ospitava ogni anno importanti eventi remieri.
Il lago si mostrò loro increspato dalla brezza della sera. Il buio era rischiarato da una luna piena, una sfera perfetta, e dalla miriade di stelle che brulicavano sopra le loro teste, riflettendosi sulla superficie dell’acqua.
Attraversarono lo spiazzo e fecero il loro ingresso nel locale: era gremito di donne, sedute ai tavoli con bicchieri di cocktail davanti. In occasione della festa dell’8 marzo, l’ambiente era stato arricchito di arredi eleganti.
Cinzia si guardò attorno, in cerca del tavolo prenotato, dove le attendevano altre due amiche. Le tornò alla mente l’ultima volta in cui era stata al ristorante con Federico. Aveva ancora presente le occhiate, cariche di rimprovero, che lui le aveva rivolto per l’abito succinto che, inevitabilmente, aveva attirato l’attenzione dei maschi presenti in sala.
Federico era un marito geloso e aveva l’abitudine di controllare i movimenti della moglie. Per questo Cinzia doveva fare molta attenzione, quando si incontrava con il suo amante. Il più delle volte si concedeva una stanza d’albergo, solitamente quello vicino al lago, un tempo un Motel, ora trasformato in una SPA, anche se c’era il rischio di incontrare qualcuno che la conosceva. Era sempre lei, naturalmente, a pagare il conto, poiché Brando era uno spiantato. Non avrebbe potuto scegliersi amante peggiore, da quel punto di vista.

La serata proseguì tra musica, portate raffinate e streap tease maschile.
Era quasi la una, quando, a un tratto, Alba disse: <<Scusate, non mi sento bene>>.
<<Che hai?>>, domandò Cinzia più infastidita che allarmata. <<Non vorrai andare a casa?>>
<<Non ti preoccupare>>, la rassicurò. <<Chiamerò un taxi. Ho un mal di testa terribile e mi è venuta anche la nausea. Tu rimani pure qui e divertiti. Ci sentiamo domani.>>
Trascorsa una buona mezz’ora, Cinzia si rivolse alle amiche: <<Esco a prendere una boccata d’aria e a fumare una sigaretta>>.
L’ombra infilò le chiavi nella serratura, aprì la porta d’ingresso ed entrò furtiva nell’appartamento al quinto piano del lussuoso stabile. La casa giaceva nel buio assoluto. Accese la piccola torcia e diresse il fascio di luce sul pavimento. Attraversò il lungo corridoio che separava la zona giorno dalla zona notte e si trovò davanti la porta chiusa della stanza da letto matrimoniale. Prese per un attimo la pila tra i denti, mentre la mano sinistra guantata abbassò piano la maniglia e, senza fare rumore, entrò impugnando stretta la pistola nella destra.
Federico Armandi pareva dormire profondamente. La sua sagoma era chiaramente distinguibile, sotto le coltri.
La figura riprese in mano la torcia elettrica e si avvicinò al letto. Diresse la canna dell’arma all’altezza della nuca e premette il grilletto. Il silenziatore attutì il botto. Rimase qualche secondo a fissarlo: nessun movimento.
Aprì l’armadio e rovistò tra i cassetti, buttando all’aria la biancheria. Prese il cofanetto portagioie dal comò, senza nemmeno controllare quanto oro contenesse, quindi uscì dalla stanza e si diresse verso l’ingresso. Diede un’ultima occhiata dietro di sé e richiuse la porta alle proprie spalle, senza fare rumore. Si assicurò che non ci fosse nessuno. Scese silenziosamente le scale e, una volta raggiunto il piano terra, uscì, dileguandosi nel silenzio della notte.
Erano le quattro e mezza, quando Cinzia, scese dal Suv, dopo aver preso le chiavi di casa dal vano portaoggetti, e si diresse verso il portone dello stabile. Barcollò incerta sui tacchi e infilò la chiave nella serratura. Raggiunse l’ascensore, entrò e pigiò il tasto numero cinque. Cercò di sistemare alla bell’e meglio trucco e capelli, durante la salita, guardandosi nello specchio della cabina: aveva delle occhiaie spaventose. Avvertiva un cerchio alla testa da paura.
Raggiunse il piano ed entrò nell’appartamento. Poco dopo, un grido agghiacciante rimbombò per l’intero condominio.
La scientifica stava analizzando la scena del crimine, mentre il magistrato Elena Macchi, convocata sul posto dal commissario Azzeri, interrogava Cinzia Armandi circa gli avvenimenti di quella notte. Il P.M. Elena Macchi era balzata agli onori della cronaca per aver risolto un caso che era rimasto per molti anni avvolto nel mistero: quello degli omicidi legati alla famiglia Della Torre, definiti dalla stampa come “I delitti di Varese”. Il medico legale non era stato particolarmente preciso circa l’ora della morte, collocandola tra l’una e le tre, tre e trenta.
I primi raggi del sole cominciavano a farsi largo all’interno della stanza, attraverso le tende chiuse.
Cinzia Armandi sedeva sul divano di fronte al commissario e al magistrato, ancora scossa dai singhiozzi. Indossava una vestaglia. Si sentì a disagio davanti ai due funzionari e strinse istintivamente la cintura di seta in vita.Aveva appena dichiarato di avere trascorso la notte fuori di casa al club dei Canottieri della Schiranna. <<Ero lì per la festa della donna.>>
<<Capisco… E a che ore è rientrata?>>
<<Alle quattro e mezza.>>
Elena Macchi la scrutò con gli occhi verdi, taglienti, ridotti a due fessure. Erano occhi di ghiaccio che incutevano sempre soggezione e timore negli interrogati.
<<Alla festa era da sola o con qualche amica?>>
<<Ero con delle amiche.>>
<<Ci può dire i nomi?>>
Mentre la Macchi interrogava, Azzeri prendeva nota su un taccuino.
Il magistrato proseguì: <<Quando lei è rientrata, ha trovato la porta aperta?>>
<<Sì, stranamente non era chiusa a chiave>>, confermò la donna.
<<C’è qualcuno, oltre a lei e a suo marito, che è in possesso delle chiavi di casa?>>
<<Nessuno>>, rispose Cinzia.
<<Ne è sicura?>>
<<Sicurissima. Ma perché me lo chiede?>>
<<Perché non sono stati riscontrati segni di manomissione della serratura, quindi è evidente che il ladro è entrato usando regolarmente le chiavi>>, rispose il magistrato. <<Siamo al quinto piano, mi riesce difficile pensare che si possa essere introdotto arrampicandosi lungo la parete. Inoltre anche le finestre erano chiuse.>> Nel pronunciare quelle parole, Elena Macchi si avvicinò alla portafinestra del salone. Scostò una tenda e guardò fuori. La vista del lago era spettacolare! Si vedeva anche l’isolino Virginia. La montagna si stagliava nitida contro il cielo che si tingeva di rosso e di arancio, con un gioco di luci riflesse sull’acqua. Era un’alba di fuoco. Una barca galleggiava solitaria vicino alla riva.
In quel momento la squadra della scientifica uscì dalla camera da letto.
Il medico legale si affacciò sulla porta del salotto: <<Noi qui abbiamo terminato.>>
<<Bene!>>, esclamò la Macchi, voltandosi verso di lui. Poi si rivolse alla donna: <<Appena se la sentirà, signora, dovrebbe farci avere l’elenco dei gioielli che le sono stati sottratti: potrebbe esserci utile per risalire al rapinatore.>>
Il cadavere dell’industriale sfilò in quel momento davanti alla sala, avvolto in un sacco, su una barella sorretta da due agenti. La moglie lo seguì con lo sguardo. Si sentì mancare, impallidì e si accasciò a terra, priva di sensi.

Quando Cinzia Armandi riaprì gli occhi, provò una fitta intensa alle tempie. Ci vollero diversi istanti, perché realizzasse dove si trovava. Era distesa su una barella, la boccetta della flebo ciondolava sopra la sua testa, appesa all’asta d’acciaio. Voltò lo sguardo verso l’ingresso della stanza e notò che la porta era piantonata da un agente in divisa. Per quale motivo era lì?
Un medico entrò in quel momento, seguito da un’assistente.
<<Buongiorno!>>, salutò abbozzando un sorriso. Celava uno sguardo indecifrabile dietro le lenti incorniciate da una severa montatura nera. Aveva tutta l’aria di essere il primario del reparto.
<<Come si sente, signora?>>, si interessò.
<<Meglio.>> Sembrò che le fosse costata fatica pronunciare quella semplice parola.
<<Le abbiamo riservato una stanza singola, per lasciarla tranquilla, vista la disponibilità di letti in questo momento.>>
Cinzia era perplessa. Perché le diceva quelle cose? Era vero che lo avevano fatto per la sua tranquillità oppure c’era qualche altro motivo? Il suo sguardo tornò alla guardia che piantonava la stanza.
Elena Macchi e il commissario Azzeri comparvero sulla porta. <<E’ sveglia adesso!>>, esclamò la Macchi, gettando uno sguardo alla vedova dell’industriale. <<Possiamo parlare con la paziente ora?>>, domandò, rivolta al dottore.
<<Senza affaticarla troppo, mi raccomando!>>, acconsentì quello e uscì dalla stanza.
Quando furono rimasti soli, il commissario Azzeri prese una sedia, la avvicinò al letto e sedette incrociando le gambe. Elena Macchi rimase in piedi accanto alla paziente.
<<Signora Armandi>>, cominciò. <<Abbiamo verificato il suo alibi e risulta che lei è stata realmente in quel locale. Abbiamo sentito le sue amiche, che però ci hanno detto che lei, poco dopo l’una e trenta, è uscita dalla sala, dicendo di voler prendere una boccata d’aria, ed è rientrata dopo più di un’ora.>>
Cinzia Armandi sbiancò in viso.
Il P.M. riprese: <<Che cosa ha fatto in quel lasso di tempo?>>
Solo adesso la donna comprese il perché del piantone: era sospettata dell’omicidio.
<<Signora, sto ancora attendendo la sua risposta.>> Il magistrato le piantò gli occhi dritti in faccia.
<<Avevo un appuntamento con il mio amante. Mi aspettava fuori con la sua auto>>, Cinzia Armandi, messa alle strette, confessò.
<<Con il suo amante?>> La Macchi sollevò un sopracciglio. <<Ci dica il suo nome.>>
<<Brando Soriani.>>
Il P.M. rivolse uno sguardo al commissario, per accertarsi che stesse prendendo nota.
Un’infermiera si affacciò sulla porta, invitando i due funzionari a uscire e lasciare riposare la paziente, in quanto sotto sedativi.
Elena Macchi e il commissario Azzeri percorrevano il lungo corridoio dell’ospedale che conduceva agli ascensori.
<<Cosa pensa, dottoressa Macchi, di tutta questa faccenda? Abbiamo fatto dei controlli, l’abitazione della Armandi è a non più di venti minuti dalla sala dove si svolgeva la festa. In quell’ora abbondante, avrebbe avuto tutto il tempo di tornare a casa, uccidere il marito, simulare una rapina, far sparire la pistola e tornarsene tranquillamente alla festa. E’ un’ipotesi plausibile, non le pare?>>
Il magistrato non rispose, assorta nelle sue congetture.

Alcuni giorni dopo la denuncia dell’omicidio, Cinzia Armandi rimaneva ufficialmente l’unica indagata per la morte del marito. Le indagini, avevano portato alla luce l’esistenza del contratto prematrimoniale, il che avvalorava ulteriormente l’ipotesi di Azzeri che la moglie fosse coinvolta in prima persona nella morte dell’industriale. Brando Soriani, inoltre, l’unico che, a detta della Armandi, poteva avvalorare il suo alibi, risultava irreperibile. La polizia si era recata al suo appartamento, trovandolo vuoto. In palestra nessuno lo aveva più visto. L’amante della vedova Armandi pareva essersi dissolto nel nulla. Il commissario premeva perché venisse spiccato un mandato di arresto per la moglie della vittima. Indizi e movente portavano decisamente a lei. Elena Macchi però pareva non essere affatto convinta della sua colpevolezza. Dalle ricerche della polizia, era emerso che un’altra persona era uscita dalla festa prima del termine della stessa, una delle amiche con cui la signora Armandi si era intrattenuta presso la sede dei canottieri, una certa Alba Manfredi. Era intenzione del magistrato convocarla al più presto.

QUATTRO GIORNI DOPO
<<Non so darmi pace, continuo a pensare alle cose orribili che le ha fatto. Una punizione doveva esserci. Doveva!>> La donna stringeva forte le dita intrecciate, mentre pronunciava quelle parole. Le stringeva al punto da sentire dolore, le nocche bianche, esangui. <<Qualcuno doveva fare qualcosa>>, ripeté.
Estrasse dalla borsa un fazzoletto di carta e si asciugò gli occhi poi soffiò il naso rumorosamente. <<Quello che sto per raccontare è terribile.>> La donna si portò una mano alla fronte e chiuse gli occhi un istante. Respirò profondamente come per prendere coraggio, prima di continuare a parlare. Un tumulto di emozioni violente si scatenò dentro di lei, nel ripensare a quegli eventi. <<Non so se ce la faccio>>, esitò.
<<Vuole un bicchier d’acqua?>>, si premurò Elena Macchi, osservando l’espressione molto provata della figura che le sedeva di fronte.
Si era presentata spontaneamente in questura, prima ancora di essere convocata, pronta a rilasciare una dichiarazione. Quando aveva capito di cosa si trattava, il commissario Azzeri non aveva esitato a contattare il magistrato che era prontamente giunta nel suo ufficio in piazzale della Libertà.
La donna sorseggiò l’acqua che le era stata offerta in un bicchierino di plastica, quindi riprese a parlare: <<Qualcuno doveva fare qualcosa, capite?>>, ripeté, in una sorta di nenia cantilenante. <<Qualcuno doveva.>> Estrasse dalla borsa un diario rivestito in pelle. <<Ecco, vorrei tanto potervi leggere alcune pagine del diario di mia figlia>>, disse, asciugandosi gli occhi col dorso della mano e tirando su col naso. <<Voglio che vi rendiate conto perché ho agito in quel modo. Ho dovuto, capite? Ho dovuto farlo! Non se ne sarebbe occupato nessun altro. Era compito mio.>>
Aprì la prima di una lunga serie di pagine e cominciò a leggere con voce tremante.
Il commissario Azzeri e il magistrato ascoltavano in silenzio.

Lunedì 5 Maggio
Caro Diario,
oggi finalmente sono uscita con Giorgio. E’ un uomo fantastico! E’ vero, è molto più grande di me, ma è così affascinante! E’ separato, ma, da quello che mi ha detto, otterrà presto il divorzio.
Mi ha portata a pranzo in un ristorantino sul Lago Maggiore.
Domani pomeriggio ci vedremo ancora. Ha detto che ha una sorpresa per me. Non vedo l’ora!
Martedì 6 Maggio
Caro Diario,
sono stata al Motel con Giorgio. Domani forse lo rivedo.
Venerdì, 9 Maggio
Caro Diario,
sono la ragazza più felice del mondo! Giorgio mi ha regalato un completo intimo stupendo! Lo ha preso in una boutique del centro. Ha detto che, quando lo ha visto, ha pensato subito a me, a come sarei stata ancora più bella con quello addosso. E’ molto sexy, sai? Comincio a credere che anche lui sia innamorato di me. Lo spero tanto.
Presto otterrà il divorzio e sarà finalmente un uomo libero. Libero per me!
Quando le cose si saranno sistemate, credo che ne parlerò a mia madre. Tu dici che si arrabbierà, quando saprà che sto con un uomo molto più grande? Ho paura che comincerà con la storia che vedo in lui il padre che non ho mai avuto, ma non è così, e tu lo sai. Io lo amo davvero.

Martedì, 13 Maggio
Sono disperata.
Credevo che Giorgio mi amasse, invece oggi ho capito che non è così. Mi ha portata al solito Motel. Ma, questa volta, nella nostra stanza c’era un altro uomo che ci aspettava. Ha filmato l’incontro. Hanno abusato di me a turno. Non sono stata capace di dire di no.
Ho provato tanta vergogna. Non sono tornata a casa: non volevo che mia madre mi vedesse. Temevo potesse capire qualcosa. Mi sono fermata a dormire da una mia amica. Non ho avuto il coraggio di parlarne nemmeno con lei.
Caro Diario,
non so che fare. Ho paura che possa mettere in rete il filmato. Ha detto che, se non mi presenterò al prossimo appuntamento, lo farà sicuramente. Mia madre ne morirebbe.
Sto malissimo.

Sabato, 24 Maggio
Caro Diario,
ho fatto una scoperta terribile: Giorgio non è l’uomo che io credevo. Mi ha mentito, mentito su tutto, persino sul nome! Non si chiama Giorgio, ma Federico. Federico Armandi. Ed è sposato, anzi sposatissimo!, con una certa Cinzia. Li ho anche visti insieme: sembravano molto affiatati. Lui la stava aspettando fuori dal Body Builders, la palestra SPA più “in” della città. Ha fatto finta di non conoscermi. Sono sicura che lei non sappia nulla di me.
Maledetto il giorno in cui ho accettato l’amicizia in Facebook da quel porco bastardo! Sembrava una persona così dolce, così perbene…
Mi tormenta il pensiero dei filmini. Non ho scampo, sono costantemente sotto ricatto. Voglio morire voglio morire voglio morire voglio morire…
Le lacrime sgorgavano copiose sul viso di quella madre distrutta dal dolore, mentre leggeva. Richiuse il diario della figlia e puntò gli occhi in viso al magistrato, in cerca di comprensione, come donna. Magari anche lei aveva dei figli e poteva capire. In realtà, Elena Macchi era una donna sola, senza una famiglia, ma riusciva a comprendere ugualmente molto il bene il dramma di quella madre. Al di là della sua apparente freddezza, celava un animo sensibile, anche se mai lo avrebbe dato a vedere.
<<La mia bambina aveva solo diciassette anni, quando si è imbattuta in un mostro che aveva creduto di amare>>, riprese la donna, infilando nell’ultima pagina l’articolo di giornale nel quale si parlava del suicidio della giovane per cause sconosciute.
Il commissario Azzeri aveva appena fatto in tempo a leggerlo, prima che la donna glielo sottraesse di mano come una reliquia della quale fosse estremamente gelosa.
La donna ripose il diario nella borsa. Soffiò nuovamente il naso, poi riprese a parlare: <<Non ho detto a nessuno quello che avevo scoperto. Mi sono iscritta al Body Builders e ho cercato di farmi amica quella Cinzia di cui mia figlia aveva scritto. Ho cominciato a frequentarla, meditando la mia vendetta. Un giorno mi ha invitata a casa sua e ho potuto vedere in faccia il mostro.>> La voce sembrò rompersi. Seguì un breve istante di silenzio poi riprese il suo racconto: <<Non è stato difficile sottrarre le chiavi di casa alla signora Armandi. Sapevo che le teneva sempre in macchina, nel portaoggetti.
Quando mi invitò alla festa della donna nella sede dei Canottieri di Varese, sul lago, decisi di accettare. Avevo da tempo acquistato in Internet un aggeggio per captare i codici del telecomando delle auto. Quella sera me ne sono andata prima, con una scusa. Ho clonato il codice e ho aperto senza difficoltà la vettura. Ho preso le chiavi dell’appartamento. Sapevo di trovare in casa quel verme schifoso: sua moglie mi aveva detto che quella sera non sarebbe uscito. Ho chiamato un taxi e mi sono fatta accompagnare a casa, per crearmi un alibi. Lì ho preso la mia macchina e mi sono diretta dall’Armandi. Quando ho terminato il lavoro, ho accostato la porta. Sono quindi tornata all’auto di Cinzia e ho rimesso le chiavi al loro posto.>>
Lo sguardo della donna era fermo, fisso sul volto del P.M. << Non sono pentita di quello che ho fatto e lo rifarei ancora.>> Asserì. <<Non mi importa nulla delle conseguenze. La mia vita è finita nel momento in cui mia figlia è morta.>>
Elena Macchi e il commissario Azzeri assistettero in silenzio a quello sfogo. Quando Alba Manfredi si fu calmata riprese: <<Poi qualcosa ha cominciato a scavarmi dentro. Non riuscivo nemmeno a dormire la notte. Il pensiero che un’innocente fosse stata incolpata di un reato che non aveva commesso, mi stava distruggendo.>> Fece una breve pausa. Aveva il viso stravolto.
Elena Macchi le chiese se desiderasse altra acqua.
<<Mi ci vorrebbe qualcosa di forte, altro che acqua!>>, esclamò Alba.
<<Tutto quello che abbiamo di forte è solo un caffè della macchinetta.>>
Elena Macchi lanciò un’occhiata d’intesa al commissario. Azzeri si alzò e uscì dall’ufficio, diretto alla Maghetti, in fondo al corridoio della questura.
<<Sono pronta a subire le conseguenze del mio gesto>>, disse Alba con sguardo rassegnato.
Elena Macchi parve non dare peso a quella dichiarazione e riprese l’interrogatorio: <<Come si è procurata la pistola? Dove si trova adesso?>>
<<E’ di mio padre. Ha il porto d’armi. Lui è un appassionato collezionista. Gliel’ho sottratta a sua insaputa. Adesso è nuovamente nella vetrinetta della sua collezione, sotto chiave, al sicuro.>>
In quel momento il cellulare del magistrato prese a suonare. La Macchi lo estrasse dalla tasca della camicetta e rispose alla chiamata.
Alba ne osservava l’espressione del volto che appariva imperturbabile. A tratti, il P.M. annuiva con aria incredula, emettendo monosillabi che non lasciavano intendere alcunché. La telefonata durò qualche minuto.
Al termine, il magistrato ripose il telefono nella tasca e, tornando con lo sguardo su Alba, si lasciò sfuggire un mezzo sorriso. Alba la osservò senza comprendere il perché di quella smorfia quasi divertita.
Elena Macchi si alzò dalla sedia sulla quale era seduta e si avvicinò alla rea confessa. Inaspettatamente, le pose una mano sulla spalla. <<Era il medico legale>>, cominciò. <<Ha riferito che, non essendo convinto che la morte dell’Armandi fosse stata causata dal colpo di pistola, a causa della scarsa quantità di sangue fuoriuscita, insolita in un caso di ferita di arma da fuoco, ha eseguito ulteriori accertamenti e…>>. Si fermò un istante, prima di proseguire, quasi non credesse nemmeno lei a quanto stava per dire. <<Beh, signora Manfredi, lei non ci crederà, ma ha sparato a un morto.>>
Alba strabuzzò gli occhi stupefatta.
<<Proprio così>>, confermò il P.M. <<Quando ha sparato al commendatore, l’uomo era già morto, stroncato da un infarto, sopraggiunto meno di un’ora prima.>>
Alba emise un singulto. <<Ma, allora…>>
<<Non c’è stato alcun omicidio.>>
La donna si portò le mani al viso.
<<La sorte ha pensato di vendicarsi per lei. Ora vedremo cosa deciderà il giudice. Sicuramente le imputazioni a suo carico saranno molto meno gravi. Per il momento, può tornare a casa.>>
Alba si alzò lentamente, lo sguardo perso nel vuoto.
Il magistrato la accompagnò alla porta.
<<Posso farle una domanda?>>, chiese la donna affranta.
Elena Macchi la guardò con aria affermativa.
<<Lei che cosa avrebbe fatto al mio posto?>>
In quell’istante, il commissario Azzeri giunse con il bicchierino del caffè in mano.
<<La signora sta andando.>>
<<Se ne sta andando?>> Azzeri era visibilmente sorpreso.
<<Poi la metterò al corrente di tutto>>, si affrettò a spiegare la Macchi.
<<E il caffè?>>
<<Non ne ho più bisogno, grazie>>, Alba declinò l’offerta.
<<Quand’è così…>> Azzeri si portò il bicchierino alle labbra e bevve d’un fiato.


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